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      Ivi il giovine monarca delle Sicilie avrebbegli consegnata la propria spada. Così davanti al prestigio del suo nome caddero le rocche dello Stretto ed i castelli della capitale; così si dileguarono cinquantamila uomini davanti alla sua carrozza da Reggio a Salerno; così la flotta, nella rada di Napoli, ammainate le vele e addobbata, con cento e un colpo di cannone lo salutò ammiraglio e signore. Ma avuta certezza dell'intervento del re sardo, lo splendido disegno gli si scoloriva d'ora in ora. L'intervento del re doveva mutare di pianta il carattere della lotta: gl'incanti del mago di Caprera dovevano scomparire, e cessato il prodigio, la realtà riaffacciarsi: un re di fronte ad altro re, l'uno per raccogliere la corona cadutagli al piede, l'altro per istrappargliela. L'intervento sostituiva allo straordinario il consueto, rendeva possibile l'ingerimento della flotta francese e la prolungata difesa di Gaeta. L'ultimo canto del poema epico era finito. Seguiva la prosa degli errata corrige, del privilegio dell'edizione e del permesso dei superiori.
      Garibaldi per avventura antivedeva lo svolgimento di questi eventi. Il suo più frequente ricordarsi di Caprera e un leggiero velo di mestizia effusa sul suo volto mi persuadevano ch'egli sentiva chiudersi anzi tempo il prefisso cammino. Non lo turbava volgare gelosia, né cruccio d'ambizione insoddisfatta; folgorante di gloria, e, per naturale modestia, schivo d'ogni grandezza, affliggevalo la incompiuta eredità di trionfi popolari ch'ei legava all'avvenire della libertà d'Italia.


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La camicia rossa
di Alberto Mario
pagine 232

   





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