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      Percorse due miglia, la gola allargandosi s'impaluda ed esala miasmi crudeli. Afflitto dalla febbre perniciosa nel settembre e paventandone la ricomparsa, balzai in piedi, tolsi, disotto alla sella, il panno e me ne feci mantello. Radi colpi di moschetto disturbarono di poco il mio viaggio. I cafoni sicuramente si concentrarono alla termopile di Castelpetroso. Procedevo al passo per non istancare il cavallo travagliato da nove ore d'incessante lavoro, serbandolo al supremo esperimento. Un miglio ancora e m'apparve sulla via biancastra una macchia nera. Dapprima la giudicai un albero abbattuto, ma il rumore dei passi di gente armata sul dosso soprastante m'indusse a crederla un gruppo di cafoni. In qualche minuto mi s'intimò l'alto, chi va là? A cui, Viva l'Italia! gridai, e mi spinsi avanti al galoppo.
      - Ferma, amici, amici.
      Era un pugno di sbandati, fra i quali parecchi uffiziali. Non appena io pronunciai alcune parole, mi vennero udite dall'alto le seguenti esclamazioni. - Ah! signor Alberto! signor Alberto! il mio padrone! E sento un uomo balzare da un enorme masso sulla strada e dietro di lui un cavallo fare il medesimo salto senza fiaccarsi le gambe. Strettemi le ginocchia, quell'uomo ripetè con traboccante emozione:
      - Ah signor Alberto! vivo! ora sono contento!
      Era Pietro di Bergamo, il mio soldato di ordinanza.
      Sei o sette di loro contemporaneamente s'industriarono di chiarirmi sulle vicende della giornata. Sfogato il naturale talento di spassionarsi in massa, mi furono cortesi di favellare uno alla volta.


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La camicia rossa
di Alberto Mario
pagine 232

   





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