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      - A me però, disse Sottocasa, all'uscita di Castelpetroso ammazzarono il cavallo, ed io rimasi confitto in terra colla gamba destra sotto il suo ventre. Inutilmente mi sforzai d'estarmela, e frattanto assisteva all'andirivieni dei cafoni sul ciglione, intesi a tirare sui trascorsi, o in attenzione di nuovi vegnenti. Essi non m'uccisero forse perché, vittima certa, mi riserbavano a più studiato supplizio; quando dopo mezz'ora d'agonia, in un sussulto estremo del cavallo che moriva, cavai la povera gamba lacera e schiacciata. Trascinatomi a quattro zampe fino al margine della consolare, diroccai a valle. Di laggiù, tutto ammaccature e guidaleschi, zoppicando e dolorando, in cinque ore feci le dodici miglia sin qui.
      Anch'io li ragguagliai delle mie avventure, lumeggiando in ispecie il serafico candore ond'erami sorbita la certezza della vittoria, e la brama, condita d'una dose di vanità, di far rapporto al comandante delle mie geste, di cui già avevo ordito la tela della narrazione e composto il riepilogo sullo stile di Tacito: il nemico rovesciato in Isernia, le alture occupate, la via a Castel di Sangro liberata. Così eglino, in mezzo alle tragiche imagini di quella giornata, sorrisero un tantino alle mie spese.
      Al tocco ci demmo la buona notte. Dopo sedici ore di sella, e digiuno, mi addormentai sul sofà nell'atto di svestirmi, e alla dimane trovai una braca e uno stivale cavati e una braca e uno stivale calzati.
      Nella notte e al mattino capitarono nuove genti, ma nessuna traccia ancora di Zasio.


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La camicia rossa
di Alberto Mario
pagine 232

   





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