A cui quegli di botto: - Bonum! fames nostra est magna. Mi confortai che in fatto di latinità del buon secolo il magiaro ed io non facevamo una grinza.
Cogliemmo i monaci a tavola. Sommavano a dieci. Cordialmente ospitali, cedettero il loro posto e vollero amministrarci le vivande eglino stessi. Bove bollito e fumante, castagne e vino per noi, e generosa misura di avena pei cavalli. Acquetate le prime urgenze dello stomaco, rossa la guancia e gli orecchi, si principiò a ragionare per diritto e per rovescio di teologia, di frati, di monache; e gli adiposi padri non si sgomentarono delle mie opinioni eterodosse, reggevano intrepidi alla barzelletta e ridevano ai lazzi sulla loro equivoca virtù. I magiari non capivano sillaba, però ridevano.
- Mi rincresce per voi, dissi al padre guardiano, ma questa ripaille finirà presto.
- Davvero! proruppe colla gioia negli occhi un monaco smilzo, pallido e giovane. Il guardiano troncogli il discorso sulla lingua e lo rimandò grullo grullo alla sua cella. Indi rivolgendosi a me: - Egli è un patrizio innamorato d'una ragazza della plebe che il cauto e giudizioso genitore chiuse qui in penitenza. Ma, ritornando al primo detto, il dittatore forse avrebbe decretato ...
- No.
- Oh! in tal caso ciò che non fece Garibaldi, odiatore di preti e di frati, non farà il rampollo della pia Casa di Savoia, venuto a prendere possesso del regno.
- Sentenza d'oro; se pur il sillogismo della storia non sarà più stringente di quella pietà. Del resto, con Casa di Savoia, se uscirete dalla porta, rientrerete per la finestra!
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