Questa cabaletta che il Verdi mirabilmente fa sorgere senza porre tempo in mezzo, forse altri l'avrebbe preparata con lamenti e trilli di orchestra, ed avrebbe arrestata l'azione.
Segue il duetto nelle carceri tra Azucena e Manrico. La quiete che precede la morte, lo squallore di una tetra prigione, l'affanno che ingombra due anime presso la loro partita sono i caratteri di questo duettino. Non si muove uno strumento, non s'innalza una frase che non spiri mestizia. I tocchi dello strumentale che ad ora ad ora si fanno sentire, pare che diffondano per la scena la larva della morte; ed il recitativo che in quella dimora sommesso e piangente si leva, mostra lo strazio di quelle creature, una già fatta cadavere e l'altra che si adopera a farle coraggio. Sommesse voci, quasi perdentisi, innalzate di tratto in tratto con spasimo e malinconia, accompagnate da uno strumentale che parla il linguaggio della morte, sono i colori con cui il Verdi ci mette innanzi questa lugubre scena. E quando Azucena assalita dal timore che i carnefici la vengano a trascinare al rogo, vede nella commossa mente la scena della madre arsa, quelle ferali note della sua ballata sono di nuovo dall'orchestra ripetute come rimembranza lontana che sbalordisce e fa fremere. Esse in quel momento destano terrore in tutti gli spettatori, essendo viva rappresentazione di quell'avventura che fu principio di siffatta catastrofe, e dipigendo il sentimento che domina tutta l'Opera. Manrico acquieta la turbata fantasia della Zingana e l'adagia presso la coltre, scongiurandola obbliare nel sonno i terrori dell'anima.
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