La qual cosa però, vera in gran parte rispetto alla sfera delle scienze, passò i confini dell'onesto quanto all'esercizio delle lettere.
Serve nacquero in quell'epoca le lettere, e serve crebbero; quantunque a parlare più propriamente, ai tempi dell'italico regno non si avessero lettere italiane, ma piuttosto francesi. Erano surte massimamente dall'imitazione servile di quanto veniva dalla superba Senna in riva all'umile Ticino, plaudendo a gola piena la schifosa adulazione degl'Italiani. Poi i reggitori francesi vietarono nelle scuole e nelle pubbliche scritture l'uso della favella italiana; di quella favella, in cui innamoravano il mondo il soave Petrarca co' suoi versi divini, il gentile Boccaccio colle sue Novelle piene di venustà, e il venerando Ghibellino colla sua Commedia, narratrice ai posteri delle miserie d'Italia. Bandirono finalmente dalle cattedre dei licei anche la favella latina, madre dell'italiana.
Si volevano i sensi e gli affetti di patria al tutto spenti nell'attuale generazione degl'Italiani; e quanto a coloro che dovevano risuscitarli per mezzo delle lettere, si voleva che muti stessero, o solo coi canti e i panegirici loro celebrassero le napoleoniche geste.
I tempi di cui ora con tanto nostro dolore veniamo discorrendo, non erano più quelli di Tacito o di Machiavelli, allorchè le virtù dei principi con parco e modesto ragionare si esaltavano, ed i vizii loro con aperto e forte sentenziare si riprendevano; ma tempi erano, in cui si offerivano incensi ai regnanti gloriosi, e sempre alla fortuna del potente si posponeva la virtù del cittadino.
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