Accresceva finalmente le affezioni e i timori un pubblico manifesto del re Ferdinando, nel quale rammentati i suoi diritti al trono delle Due Sicilie, richiamava i popoli alla obbedienza verso di lui.
Era giunta l'ora in cui l'Austria dovesse dare al Borbone gli aiuti promessi. Murat, che con la sua presenta negli Abbruzzi non avea potuto impedire le diserzioni, nè fare che i scoraggiati si rassicurassero, pieno di mal talento per tutto quello che vedeva e più per quello che temeva, seguitò le reliquie del suo esercito prima a Capua, poi a Caserta, donde mandava un suo messo a Bianchi per richiederlo di una tregua alle offese. Ma Bianchi, che non ignorava quali fossero allora le intenzioni della sua corte rispetto ai Borboni, e che col proprio intelletto poteva anche giudicare esser venuto il momento di tirarsi più su con le dimande, chiese come prima ed immutabile condizione al trattato, che Giovacchino rinunziasse per sè e suoi eredi alla sovranità di Napoli: la quale proposizione, siccome parve disonorevole al re, così non la volle accettare. D'altronde, conosciuto Murat dopo gli ultimi successi degli Abbruzzi quale tempesta minacciasse di scagliarsi contra di lui, e parendogli altresì che il formare ulteriori disegni di guerra sarebbe un voler ingannare sè medesimo, stimò meglio di fermare le cose con quel modo di composizione che si potesse migliore. Quando in tal modo deliberò, non gli rimanevano forse otto migliaia di combattenti, fanti e cavalli.
Chiamò adunque il general Carrascosa comandante in capo delle armi, allargandogli l'autorità di convenire intorno alla salute dello Stato e delle persone.
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