Rispose adunque a Metternich pei generali; e a Maceroni, che per tentarlo da tutti i lati abbelliva i desiderii unanimi della moglie e dei figliuoli di presto riabbracciarlo, per breve discorso espose della pensata invasione le preparazioni e i vantaggi; non contrarietà di fortuna che l'attraversasse; non impedimento di popoli che la ritardasse; il tutto come in regione vacua di difese e di vigilanti reggitori. Poscia convitatolo a mensa, godeva in farsi raccontare i casi egregii di guerra succeduti nei campi di Waterloo, dove Maceroni aveva accompagnato il duca di Wellington. E quegli con bella narrazione gli veniva via via figurando così la intrepidezza, la perizia, il valore dei battaglioni francesi, come la fortezza, la immobilità, la costanza dei quadrati inglesi; dando sempre il re a tutte le parti di quel maraviglioso racconto ripetuti segni ora di stupore, ora di ammirazione, ora di compiacenza, quasi in quel medesimo punto di quelle armi e di quei combattenti l'urlare, il percuotere, l'assalire, il rispingere udisse egli e vedesse. Ma quando narrò Maceroni, che la immensa possa delle veterane falangi di Napoleone, ancorchè molto si affaticassero a spuntarla in quel cimento terribile, non valse a scomporre i resistenti quadrati inglesi, con piglio e parole vivacissime proruppe Murat: "Ben io li avrei sfondati se, guidatore supremo delle nostre cavallerie, fossi stato chiamato a partecipare della battaglia". E poichè l'altro con riverenti modi mostrava tuttavia di dubitare, il re tosto soggiunse: "Non io son uso, o Maceroni, ad infantile millanteria.
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