Persuasi così il Borbone e i ministri di Napoli che ogni cosa succedeva in Sicilia a seconda dei loro desiderii, applicarono la mente a prevenire e dissipare le altre maggiori difficoltà che potessero venire da fuori.
A nessuno poteva a quel tempo parer dubbio, che l'Inghilterra fosse la sola nazione d'Europa, vincolata dal proprio onore a tutelare le franchigie siciliane; sì perchè in tempi difficilissimi avevano i Siciliani accomodato dell'aiuto loro gl'Inglesi, e si perchè da alcuni anni esisteva fra questi due popoli una grande somiglianza d'interessi e d'istituzioni. Era anzi evidente, che l'esito finale di quelle mene dei borboniani e di quelle insidie napolitane dipenderebbe in tutto dal modo con cui sarebbero udite e tollerate dal gabinetto di Londra, che non poteva d'altronde non saperle per mezzo de' suoi fidati numerosi e molto vigilanti nell'isola. Sedeva a quei giorni ambasciatore per la Gran-Bretagna presso la corte di Napoli, come prima presso la medesima corte in Sicilia, sir Guglielmo A' Court, persona di non grande levatura nelle politiche e diplomatiche trattazioni, ma abilissimo nel condurre un intrigo, avido, accorto, tristamente ambizioso. Furongli subito attorno il re e i ministri di Napoli, che ne avevan subodorato l'umore, e disegnavano cavarne profitto. Se gli fece credere la Sicilia scontenta dello statuto, ed in prova si esibirono indirizzi di varii comuni, dei quali alcuni procacciati a furia di denaro e di seduzioni, altri falsati nei sensi e perfino nelle parole.
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