Questo fine ebbero le oneste lamentazioni dei Siciliani, affinchè nell'usare il comando si portasse rispetto ai più santi dettami della giustizia e della umanità: il carcere, i castighi, l'esiglio punirono coloro che non d'altra cosa si trovarono rei che di avere troppo amata la patria infelice. Non dismisero però quei generosi la speranza di un miglior tempo, che verrebbe a consolare il dolore dei cittadini e la sventura del suolo natio. E balenò tale speranza l'anno 1820; ma in breve scomparve, dispersa dalle falangi tedesche chiamate da un re spergiuro ad opprimere i confidenti, i traditi. Risorse l'anno 1848 più bella e più gagliarda, perchè afforzata dal sangue largamente versato nei combattimenti palermitani; ma non fu lieta lungamente della vittoria, perchè la minacciarono prima, la spensero dopo nuove insidie cittadine e straniere.
Conseguenza immediata della nuova legge furono le mutazioni avvenute nell'ordinamento amministrativo della Sicilia, la quale rimase divisa in sette province, retta ciascuna di esse da un intendente, ed ogni distretto da un sottointendente; in ogni provincia un consiglio d'intendenza, i cui membri pagati coi denari del regio erario, più che gli interessi e la felicità dei Comuni, attendevano a promuovere gl'interessi e la felicità del governo napolitano e del re. Aboliti i consigli civici, e ad essi sostituiti i decurionati, i cui membri scelti dal re, mostravano che tutta l'amministrazione municipale si reggeva a discrezione di lui. Stabiliti parimente consigli provinciali e distrettuali di nomina regia; adunanze mute, ignote alle stesse popolazioni, allorchè trattisi di regolamenti di finanza, di discutere leggi, di tutelare l'onore, le franchigie o il materiale interesse della nazione; operose e loquaci, affinchè con la prolissità dei discorsi si occulti la picciolezza dei fatti, quando si discutano provvedimenti locali, o si aderiscano a disposizioni ministeriali e regie.
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