Bene essere, che Roma intenda a conservare salve ed illese le prerogative della sedia apostolica; ma bene essere pure, che il re non consenta a lasciar distruggere per l'opera di un sol momento quello che infiniti studii avevano siccome giusto, innegabile ed anche lodevole fino ad evidenza mostrato. Non temere per tutto questo, continuava a dire Ferdinando, che Dio nel giorno del finale giudizio sia per domandargli ragione del non aver lui prestato l'omaggio della chinea al papa; sarebbe sempre, come in passato era stato, figliuolo umilissimo della chiesa in tutto che risguarda le materie religiose e potesse offendere la purità della sua coscienza, ma saprebbe ad un tempo nelle temporali faccende usare di tutta quella independenza che si appartiene ad un principe, o che l'utile del suo Stato instantemente richiede. Essere infine parato a non separarsi dalla presa deliberazione di resistere con tutte le sue forze agl'immoderati richiami di Roma; essere risoluto ad appigliarsi a qualunque più estremo partito piuttosto che commettere indegnità alcuna, o fare sommessioni da cui il mondo potesse argomentare che egli, cedendo ad una prima e superba intimazione di Roma, non prendesse la debita cura della regale dignità e di quanto ai diritti del soglio si conviene. Con questi immutabili sensi, con queste pure e sante intenzioni vivere ugualmente sicuro del favore del giusto cielo, e del consentimento degli uomini imparziali e dabbene.
Grandissima maraviglia non disgiunta da qualche amarezza, come si può facilmente pensare, recò al papa ed ai ministri della corte romana questo scritto di Ferdinando, da cui, se la presente contesa non si fosse presto ridotta a buona composizione, avrebbero potuto nascere infinite difficoltà, e sorgere eziandio occasioni di scandalo.
| |
Roma Ferdinando Dio Stato Roma Roma Ferdinando
|