Perciò il papa, non senza grave rammarico perchè vedeva uno dei principi più devoti a Roma ad un bel tratto dargli la volta sotto in un affare di suprema importanza, richiesti prima del parere loro i cardinali coi quali era solito consigliarsi nelle maggiori strettezze, rescriveva: Non si sarebbe mai aspettato ad un simile procedimento dalla parte del re; avergli dianzi parlato parole di religione, di benevolenza, di amore, e la sua risposta sforzarlo, sebbene suo malgrado, ad una discussione di pubblico diritto; essersene stato lungamente in forse se gli convenisse farlo; ma nel timore che un più lungo silenzio dal lato del Vaticano potesse vestire le apparenze del convincimento, essersi finalmente risoluto ad impegnarsi in una disputazione, la quale tutt'altro porta in sè che amore di pace e di buona concordia; non avere però il pontefice in sè medesimo altro convincimento da quello in fuori, che il re in questa occasione presti facile orecchio ai suggerimenti altrui più che alle voci della coscienza propria, e ciò tanto più, in quanto che i sensi attuali di lui si trovavano in tutto disformi da quelli manifestati già in Palermo in tempi meno felici. Crederebbe adunque il mondo, che ora Ferdinando rifiutasse per superbia quello a che aveva prima acconsentito per timore? Non essere inoltre la dimanda della chinea insolito argomento nè vana pretesa, come in ciò vanno sinistramente argomentando i nemici della santa Sede, ma diritto fondato sopra titoli sacri ed antichi di possesso; non faccenda temporale, ma obbligo spirituale che vincola la coscienza; e come irreprensibile era la causa da cui la promessa scaturiva, così santa ed inviolabile la rendeva il giuramento emesso di non mai volervi derogare.
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