Ferdinando allora si sbigottiva al solo nome del papa, e la paura del giudizio finale a guisa di spettro minaccioso gli stava sempre davanti. Questo fu il laccio a cui lo presero i preti. Gli susurravano continuamente all'orecchio: Avvertisse agli scandali ed ai mali che s'erano veduti in tutta l'Europa sulla fine del secolo passato, solo perchè avevano messo larghe e profonde radici i traviamenti della filosofia, e le massime empie ed assurde dell'irreligione; quello che fosse nato da tale generale sconquasso, il mondo spaventato averselo ampiamente sperimentato; ora cominciare appena a ridursi in buon porto la sbattuta navicella di Piero, e di nuovo in tutti gli Stati della cristianità diffondersi a sollievo e speranza delle anime contristate la medicina cotanto salutare della religione; non suscitasse quindi col suo esempio nuove occasioni di scandalo, di pericolose innovazioni e di tristissime conseguenze in Europa.
Fatto credulo ai minacciati castighi, più per debolezza di mente, che per arrendevolezza di cuore, Ferdinando volle venirne ad un accordo terminativo con Roma, che sopisse la memoria della funesta contesa, quietasse le voci della coscienza angustiata, ed accelerasse il pontificio trionfo. Conferiti pertanto i pieni poteri di negoziatore al suo ministro Medici, recossi questi a Terracina, dove ristrettosi col cardinale Consalvi al medesimo fine colà spedito dal papa, ed essendo già innanzi digerita la materia, il che toglieva di mezzo i consueti temporeggiamenti, le due parti fermarono un trattato, correndo allora il dì 16 del mese di febbraio dell'anno 1818, del quale questi furono gli articoli palesi: Fosse la religione cattolica, apostolica, romana la sola pubblicamente professata nel regno delle Due Sicilie, e vi godesse di tutti quei diritti, onori e prerogative che a lei si competono per la maggiore sua esaltazione; il pubblico insegnamento dovessesi in tutto conformare allo spirito e ai dettami della medesima, e quello che si dava nelle università del regno affidato agli ecclesiastici; riordinassersi nei reali dominii di qua dal Faro le diocesi, e sopprimessersi i vescovadi sperimentati inutili o di giurisdizione poco estesa; per lo contrario, il numero loro accrescessesi in Sicilia; niun vescovo avesse entrata minore di ducati tremila napolitani in beni stabili, e la entrata suddetta si trovasse esente ed immune dai pubblici pesi; ristabilissesi il foro ecclesiastico in tutta la sua pienezza ed integrità; il re i vescovi nominasse e proponesse, salvo però al pontefice il diritto di appruovare o rigettare; le rendite delle sedi divenute vacanti si assegnassero alla chiesa; fossero e s'intendessero le scuole ecclesiastiche immuni dalla intervenzione del governo; libera ai vescovi la censura contra chiunque contravvenisse alle ecclesiastiche leggi; libera medesimamente ad essi la facoltà di comunicare col clero e coi popoli in tutto ciò che spetta le materie religiose; non impedito a qualsivoglia persona il corrispondere col papa, ricorrere alla curia romana, e casso conseguentemente il divieto di scrivere a Roma senza una speciale permissione del re; concessa infine ai vescovi ed agli ecclesiastici nominati da loro la facoltà d'impedire la stampa o lo spaccio di libri contenenti massime avverse alle dottrine della chiesa romana ed alla purità dei costumi, e dovesse il governo intervenire affinchè tali disposizioni dalle potestà secolari in appoggio delle ecclesiastiche prontamente e senza esitazione alcuna si eseguissero.
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