Tali tendenze del congresso di Vienna, e dei principi confederati in particolare, ottimamente comprese e succiate quasi dal Consalvi, informarono la politica della corte romana in tutto il tempo che tenne il cardinale la direzione de' pubblici affari. Tornato egli in Roma, penetrato soprattutto degli ammonimenti dati sotto colore di consigli dagl'imperatori d'Austria e di Russia, non fare cioè nelle faccende governative tali mutazioni che potessero turbare il quieto stato d'Europa, e non ridurre troppo alle strette i popoli, acciocchè questi non dessero ascolto alle suggestioni dei novatori, potè liberamente occuparsi del riordinamento dello Stato, in guisa com'egli credeva, che ne fossero maravigliosamente conciliate le esigenze dei sudditi con le prerogative del sovrano, l'utile dei particolari con l'interesse comune, le necessità presenti con le contingenze future. Presentendo alcuni savii e sperimentati uomini dello Stato romano, che i preti sotto il nuovo governo tornerebbero ad avere la principale, anzi un'assoluta ingerenza negli affari, e che costoro, per la poca pratica che avevano della pubblica cosa, non mancherebbero di arrecare più danno che vantaggio al regolare cammino dell'amministrazione, opinava. no doversi allargare le concessioni ai municipii, ed al governo loro nominarsi persone devote a Roma, ma oneste, capaci, facoltose e nate nella medesima terra. Consalvi fu di contrario parere. Quello che più gli pareva importasse per ora, si era di giovarsi degli ordini più perfetti introdotti nell'amministrazione dal cessato dominio di Francia, lasciando a questo fine o rimettendo in carica gl'impiegati del governo francese più noti per la conoscenza loro degli affari; poi scemare quanto più potesse l'autorità ai cardinali ed altri agenti del potere per concentrarlo maggiormente nelle mani del papa, ma chetamente, a poco a poco e consideratamente, così richiedendo il maggior bisogno della tranquillità interna, e le considerazioni verso la politica generale d'Europa.
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