Non pochi mercatanti, e fra loro l'avaro duca di Modena, facendo a questa volta l'uffizio di monopolisti o meglio ancora di ladri, e traendo infame profitto dalla generale calamità, ricettarono nei magazzini derrate e farine fatte venire dai porti del Mar Nero, o comprate nei nostri a basso prezzo, perchè cattive, peggiorate per l'accumulamento loro in umidi siti, e per molta vetustà puzzolenti; le vendevano di poi alle bisognose popolazioni a prezzi grossissimi, e spesso anco vituperevoli. Dagli effetti di questa maladetta ingordigia fu tocca in poco tempo, non solo la gente delle città, ma quella altresì del contado, la quale ebbe più volte a sentirne acerbissime doglie, segno indubitato della rea qualità delle vendute provvisioni, e della frode dei provveditori. Furono viste in alcuni paesi le misere popolazioni spiccare dall'albero i fichi non pervenuti a maturità, farli bollire nell'acqua a guisa d'erbe o simili altri vegetali, ed ogni sera apprestarne la cena ad intiere famiglie, che per voglia impetuosa di saziare la fame, quasi dilicate vivande li divoravano. In altri luoghi vedevansi donne, ragazzi ed anche uomini provetti andare in cerca di erbaggi crudi ed amari, e già cotti, servirli senza l'usato condimento dell'olio e nè anco del sale; alimento insufficiente ai bisogni dello stomaco, di un gusto spiacente, stimolo all'eccitato appetito, dannoso per la conseguente lubricità del corpo. Le farine vendute a caro prezzo dal duca di Modena nemmeno servirono al pasto d'immondi maiali; i quali, fiutatele appena, le schifavano e fuggivano come se in sè medesime contenessero alcune parti velenose e mortali.
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