Or senza più, Signore mie, lasciatevi rapire a' lidi nella storia più famosi.
SUL GANGE SACRO
Paolo Mantegazza e Angelo De Gubernatis, amici miei antichi e carissimi, quei visitatori e descrittori dell'India che il mondo sa, potranno essermene testimonii e garanti: una nota che nella poesia indiana vibra costantemente, e senza riscontri se non assai rari e assai meno intensi nell'antichità greco-romana fino a Virgilio, il sentimento della natura; quella sorta di coscienza d'una parentela universale, che avvince l'uno all'altro tutti gli esseri, e, attraverso ogni specie di abitatori della terra, scende ad abbracciare nella infinita sua tenerezza ogni frutto, ogni fiore, ogni germoglio di lei; dalla tenue asoca, nunzia di primavera e di lieta fortuna, che dimanda per ischiudersi il tocco del piede di una vergine, fino alla gigantesca foresta di Suticsna o a quell'altra del monte Citracûta, delle quali il Ramayana di Valmici celebra sì sfoggiatamente la ricchissima flora. Bisogna leggere in quel sovrano dei poemi il capitolo della Discesa del Gange, chi voglia specchiarsi nel più grandioso paesaggio che sia al mondo; oppure il capitolo del soggiorno nell'eremo di Suticsna, chi sia vago del più gentile spettacolo di verzura. Io ho procurato di renderne il meno disadattamente che potei quell'imagine tutta gemme, tutta sfaccettature e sprazzi di luce, che ne trovai nella prosa del Gorresio.
«Un anno intero errò distesa e impetuosa su per la testa del Dio la ninfa Gange, incerta della sua via.
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