Io credo che mi saprete grado di questo accenno, gentili Donne, se vorrete cercare la fedele versione del teatro di Kâlidâsa, che ha dettata in prosa per la massima parte (non senza tramescolarvi, alla maniera dello Shakespeare, dei versi, per veritŕ un po' pedestri), il nostro Marazzi. (Teatro di Calidasa, tradotto dal sanscrito in italiano da Antonio Marazzi, Milano, 1871).
Uditene intanto qualcosa. Il Re, fatto accorto dagli anacoreti d'essere sul limitare dell'eremo, desiste dal tirare la freccia giŕ incoccata contro una gazzella fuggente, scende dal cocchio, e s'inoltra per fare atto di reverenza. In quel mentre certe leggiadre fanciulle, le figliuole degli anacoreti, s'accostano per inaffiare gli alberi sacri. E il Re: «Oh, a destra di questo viale s'ode un cicalěo; andrň di lŕ.» Una delle compagne, delle quali il poeta argutamente ritrae l'amabile malizia: «Senti, Sakuntalâ - dice alla figliuola del maggior Savio - mi pare che papŕ Kanvo abbia piů premura degli alberi dell'eremo che di te; poichč, essendo tu delicata come un fiore di navamâlicâ (una sorta di gelsomino), pure t'ha incaricata di riempiere d'acqua le fosse di questi alberi.» - «Non č soltanto l'incarico del padre - risponde Sakuntalâ - che mi eccita a ciň: io pure nutro per loro amor di sorella.» E poco stante: «Amica Anasűya, la veste di corteccia, che Priyanvadâ m'allacciň troppo strettamente, m'opprime. Rilassala un poco.» «Subito, ecco fatto» - dice Anasűya. Ma la birichina Priyanvadâ: «Tu non devi farne rimprovero a me, bensě alla gioventů che ti inturgidisce il seno.
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