Già d'allegoria non s'è principiato a discorrere che nel secondo secolo; e la più compiuta fu messa insieme nel terzo da Origene, che aveva pur troppo buone ragioni per non acconciarsi a riconoscere nudo e crudo un epitalamio in un libro canonico della Scrittura. Ma il fatto è che il mondo semita, massime nel suo periodo più genuino, conobbe assai poco di quell'esaltazione erotico-mistica, da cui scaturirono, in un'età più affatturata, certi poemi dell'India e della Persia.
Giusta gli studii dei sapienti moderni - e potrei citarvi da Herder giù fino all'ottimo e sempre rimpianto Renan, passando per Jacobi, Velthausen, Umbreit, Ewald, Hitzig e tutti gli altri, una serqua di nomi altrettanto autorevoli quanto poco melodiosi - il Cantico dei Cantici risale, nientemeno a nove secoli avanti l'êra volgare: a quella età più schietta e più libera, in cui il genio d'Israele, non ancora sopraffatto dal pietismo, serbava assai del vecchio lievito repubblicano, e ripugnava, massime nel Regno del Nord, agli influssi delle fastose monarchie orientali, di cui Gerusalemme s'era venuta imbevendo. La vita pastorale, i costumi semplici della tribù, l'amore della libertà agreste, ben naturale in una bella contrada come è quel verde paese del Libano, ricco di selve, di pascoli, di acque correnti, dovevano di per sè, come osserva bene il Réville, dare impulso a una vigorosa poesia popolare.
Non si può certo da questa pretendere che conoscesse il ritegno, le mezze tinte, le delicatezze di età più colte; ma nemmanco è da confondere l'ardore dei sensi che vi regna, col vizio; nè la ingenua sincerità di una innamorata fanciulla, coi lenocinii della corruzione.
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