Zeusi non lascia, è vero, da parte i soggetti mitici e omerici, i Marsia, i Pane, i Borea, i Menelai e gli Agamennoni; ma anche alla mitologia s'ingegna di dare, quando può, un'interpretazione umana. Di Ercole infante che strozza le serpi mandategli da Giunone gelosa, egli fa un fanciullo precoce, di cui babbo e mamma restano ammirati e sgômenti: il vecchio spauracchio de' Greci, imagine quasi della ferocia barbarica, il Centauro, egli lo tramuta in un buon padre di famiglia, che si diporta sull'erba tra la consorte e l'ancor piccina figliuolanza. Così la commedia nuova e domestica succedeva alla politica e antica.
E' si sarebbe quasi tratti a credere che Zeusi (il quale tenne, si sa, non breve dimora ad Atene e fu in dimestichezza con Socrate), avesse da lui udito qualcosa delle calzantissime argomentazioni con le quali, se vogliamo prestar fede a Senofonte, il grande interrogatore avrebbe un giorno messo alle strette l'emulo di Zeusi, Parrasio.
«Dimmi tu - avrebbe detto al pittore il filosofo - la pittura non è ella un'imitazione delle cose che si veggono?
«A cui il pittore: Tu di' il vero, o Socrate; e per questo?
«E Socrate: E se tutte cose dovete, o pittori, imitare, imitate voi anche la sembianza dell'animo persuasiva, dolce, grata, desiderabile, dolorosa?
«E in qual maniera - soggiungeva il pittore - puossi egli imitare quello che non ha nè proporzione, nè colore, e che a niun patto si può vedere?
«Ma - replicava il filosofo - non si dà egli alle volte il caso che altri guati alcuno con viso giocondo o con burbero?
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