E fatto il cor più fiero,
Dal finto duol, già sazie.
Corser sfrenate al vero.
E là dove di Libia
Le belve in guerra oscenaEmpiean d'urla e di fremito
E di sangue l'arena,
Potè all'alte patrizie,
Come alla plebe oscura,
Giocoso dar solleticoLa soffrente natura.
Che più? Baccanti e cupideD'abbominato aspetto,
Sol dall'uman pericoloAcuto ebber diletto;
E dai gradi e dai circoli,
Co' moti e con le vociDi già maschili, applausero
Ai duellanti atroci:
Creando a sè deliziaE delle membra sparte
E degli estremi anelitiE del morir con arte.
Copri, mia Silvia ingenua,
Copri le luci; ed odiCome tutti passarono
Licenzïose i modi.
Il gladiator, terribileNel guardo e nel sembiante,
Spesso fra i chiusi talamiFu ricercato amante.
Così, poi che dagli animiOgni pudor disciolse,
Vigor dalla libidineLa crudeltà raccolse...
E nessuno ne provò da vantaggio i furori, che le povere schiave. «Io non ti vieto - dice Ovidio alla sua dolce scolara nell'Arte d'amare - io non ti vieto di farti acconciar il capo in cospetto d'altrui, sì che le chiome spargansi diffuse per le tue spalle: ma bada di non essere in quel mentre iraconda, di non disfare troppo sovente l'opera dell'ornatrice; e la poverina non sia malmenata. Odio colei che le infigge l'ugne nel viso, e le braccia le trapassa, furente, con l'ago; sì che la misera tutta sanguinolenta ripiglia, tacitamente maledicendo, il suo ufficio.» Un altro poeta degli amori, Properzio, rimprovera alla sua Cinzia, ferocemente gelosa, d'avere inflitto a un'altra poveretta un vie più crudele supplizio: «Lalage, sospesa per i capelli, è flagellata.
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