Poche catastrofi al mondo furono cotanto rapide e disastrose quanto la caduta del Regno Macedone, conquistato dalle armi romane appena centocinquant'anni dopo che aveva con Alessandro il Grande toccato l'apice della potenza e della gloria. Polibio, l'insigne storico che ne fu testimonio oculare, e che, greco di nascita, doveva averla sentita nel profondo dell'animo, come quella con cui le ultime speranze della indipendenza greca rovinarono, cita a questo proposito un filosofo, Demetrio di Falera; il quale in un trattato sulla Fortuna, scritto proprio a' giorni della massima prosperità macedone, era uscito in queste parole: «La Fortuna, questa assoluta padrona della nostra vita, che muta ogni cosa contro il nostro imaginare, e con tanti colpi imprevisti proclama la propria potenza, pare a me che trasportando a' Macedoni la prosperità meravigliosa dei Persiani, abbia voluto dare a intendere che essa non ha fatto se non imprestarne loro il godimento, insino a che le piaccia disporne altrimenti.» Parole, soggiunge Polibio, più di un Dio che di un uomo: perchè, cento cinquant'anni innanzi, predissero esattamente quel che doveva accadere.
Vi risparmio, Donne gentili, i fastidiosi particolari di quel che tra Romani e Macedoni era intervenuto prima dell'ultima guerra, in cui Perseo fu vinto: costui insomma, ultimo Re, avendo tentato di capitaneggiare una riscossa di Greci e d'altri popoli, già a metà soggiogati, contro Roma; e Roma, come soleva, avendo tenacemente proseguito (anche quand'egli tentennò e profferse pace), i propositi suoi di conquista.
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