Era Perseo, dicono gli storici romani, un bell'uomo, destro e forte a tutti gli esercizii del corpo, non dedito come il padre al vino e alle donne. Ma come lui, soggiunge il Mommsen, appassionato e leggiero, tenacissimo nell'adunar tesori per la divisata guerra, ma, all'ora di spenderli, per avarizia restìo: nel concepire l'impresa dell'indipendenza audacissimo, ma allo stringer dei nodi titubante; cattivo generale, ancora che non ispregevole soldato. E Polibio, trascinato da nobile indignazione, gli contende anche questo merito: «Nella giornata di Pidna - egli dice - dove le sorti si decisero, Perseo aveva fermo in sulle prime di vincere o morire; ma, dopo un effimero vantaggio, l'animo gli cadde, e dal campo di battaglia si ridusse in città sotto colore di fare un sagrifizio ad Ercole, come se Ercole non ricusasse le offerte propiziatrici dei vili!» Il tenace Greco loda più volentieri Paolo Emilio, che, vincitore di un tanto Regno, non insuperbì, ma davanti al Re prigioniero disse a' suoi: «Correre dagli insensati ai saggi questo divario: che quelli solamente dai disastri proprii, questi imparano dagli altrui.» (Polyb. Excerpt. Legat. XLVI a XCIV).
Paolo Emilio ebbe in Roma gli onori del trionfo: però con nobili e veramente romane parole, secondo si legge in Tito Livio, «Il mio destino - disse - non meno di quello di Perseo, è insigne documento della sorte serbata ai mortali; avvegnachè costui vedesse bensì i proprii figli trascinati innanzi a sè prigionieri, prigioniero egli stesso; ma sa che son vivi; io dal funerale di un figliuolo ascesi al carro trionfale; e scesi da questo per recarmi presso un altro figlio spirante.
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