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V'ho nominato Eginardo; e per farmi perdonare tante citazioni di nomi barbari, ed anche perchè non vi sembri che ne' miei versi io abbia apposto a que' paladini di Carlomagno una ammirazione troppo stupida in faccia all'orologio mandato in dono al loro signore da Harun al Rascìd, ve la descriverò, questa maraviglia, insieme ad altre parecchie, con le parole di Eginardo medesimo, che deve averle vedute. Era costui, come sapete, lo storiografo in titolo dell'Imperatore; il quale di lettere a dir vero, si piaceva molto, ma ne sapeva pochino; tantochè Eginardo stesso confessa come Sua Magnificenza molto si travagliasse per riuscire a scrivere, ed anzi tenesse sotto l'origliere carta e penna per riprenderne a momenti persi l'esercizio; ma ci riuscisse poco: sed parum successit labor. Checchè ne sia, torniamo all'orologio.
«Nell'anno dunque di grazia ottocentesimo, un legato del Re dei Persiani, Regis Persarum, per nome Abdallâh (Eginardo dice Abdella, ma io leggo Abdallâh), coi monaci di Gerusalemme legati dal patriarca Tommaso, i cui nomi furono Giorgio e Felice, giunsero all'Imperatore portando doni che il predetto Re gli mandava, e cioè un padiglione e le tende per un atrio, di mirabile grandezza e bellezza; imperocchè erano tutte di bisso (byssina, ma il bisso, che lo storiografo toglie a prestanza dai classici, doveva essere un qualche sciamito orientale); tanto le tende quanto anche i loro cordoni, tinti in varii colori. Furono inoltre i doni del prefato Re vesti di seta (pallia serica) molte e preziose, e profumi e unguenti e balsami, e un orologio (ci siamo) di ottone, per arte meccanica meravigliosamente composto.
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