Gli eunuchi slavi macchinavano di sostituire al piccino uno zio; ma essi, dico il Visir Mosciafî e Abî-Amir che gli stava molto bene di costa, tolsero lo zio di mezzo, con quella indifferenza che si conviene a fatalisti; accarezzarono tuttavia gli eunuchi, e un po' più tardi, a tempo debito, li spensero: Machiavelli non avrebbe domandato di più. Il piccolo Hichâm potè passeggiare trionfalmente a cavallo le vie di Cordova, sotto l'ali de' suoi due tutori. Aurora esultò.
Non ci mancava alla fortuna di Abî-Amir se non quella grande leva che è la guerra; e la guerra venne. Mosciafî era letterato e poeta; non aveva mai cavato la spada dalla guaina. Contro Leone e Castiglia ci voleva altro. Abî-Amir s'offerse lui, a patto di essere munito d'un grandissimo nerbo di zecchini, a marciare; partì, s'amicò colla munificenza tutti, e tornò coronato dalla vittoria. Aveva tuttavia saputo carezzare l'orgoglio del generale di maggior grido, Ghâlib, l'antico pacificatore del Marocco; e poichè lo seppe uomo suo, la disgrazia di Mosciafî fu decisa. Costui si vide prima percosso in un figliuolo, di cui aveva fatto un Governatore della capitale, ma tanto inetto, per verità, che la licenza e i delitti correvan le vie. Abî-Amir sottentra esso medesimo al Governatore, condanna, come Bruto, alla fustigazione un proprio figlio, che ne muore; e i delitti scompajono. Mosciafî vacillante, ma non caduto ancora, tenta Ghâlib, gli chiede Azmâ sua figlia per un altro de' proprii figliuoli in isposa, e l'ottiene; se non che Abî-Amir, checchè sia per pensarne la Favorita, non esita: offre alla bella Azmâ la sua propria mano, e soppianta anche una volta l'emulo suo.
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