Il povero poeta sente prossima ormai la penitenza de' proprii peccati; e ne aveva. In corte di Califfi un processo per malversazione è tosto in piedi, e quello di Mosciafî ha la fine che tutti sogliono: la condanna e la confisca.
Contuttociò, da eunuchi e da letterati ortodossi (Abî-Amir passava per filosofo), si trama ancora una congiura. Che cosa fa egli? Punire i colpevoli, e fieramente li punisce, non basta. Bisogna disarmare l'ortodossia contentandola; ed egli brucia, anzi fa bruciare dagli Ulema, un terzo della biblioteca. Hichâm, Califfo oramai soltanto di nome, viva tra l'aremme, gli esercizii spirituali e i digiuni; affinchè nessuno l'avvicini più, si trasporti la capitale altrove, in una città nuova, a Zâhira; un'ordinanza proibirà bentosto che nemmanco più si pronunzii il nome del giovane Principe.
Quind'innanzi, la mente d'Abî-Amir si volge tutta all'esercito. Ghâlib e le truppe devote alla dinastia erano un pericolo: occorrevano truppe che non conoscessero altra patria se non il campo: e Abî-Amir pensò ai Berberi e ai Cristiani. Questi cavò con l'esca del danaro dai poveri Regni di Leon, di Castiglia e di Navarra; quelli trasse fuori poverissimi da Ceuta, li rimpannucciò, li fornì d'armi e di cavalli, gli arricchì; e si raccontano graziosi aneddoti della sua indulgenza verso quei rudi figliuoli della Natura; compì infine tra gli Arabi medesimi una rivoluzione audacissima: alla tradizionale partizione per tribù surrogò quella, tutta militare, per reggimenti. Il leale Ghâlib non tardando a intendere le segrete cagioni di queste riforme, ruppe col genero in guerra aperta.
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