De la cete deforme,
E, pur non òsi edificarvi il nido,
D'un ignoto emisfer videro il lido.
Ahi quando ad afferrar l'arcana spondaLevò l'ingegno il Genovese audace
Perchè il Fato rapaceA noi contese di materne vele
Correr liberi l'onda,
E côlta per le chiomeLa de l'italo nome
Non inesperta, ritornar fedele,
Fortuna a' rei propizia, a noi crudele?
Non avrìa l'Indo generoso e il Regno
De' magnanimi Incassi orrida tantoPatita età di pianto,
Nel nome di Colui ch'ama e perdona:
Tuo non era disegno,
Colombo padre: e in quellaTua candida favella,
«Una gente - dicevi - ingenua e buonaNon di spine, d'amor merta corona.»
Dicesti invano. Te pur di cateneGravò te pur l'oscena rabbia e l'empia
O non so se più scempiaFame de l'oro, che d'inutil pondo
Ruppe a Iberia le vene:
E fu conversa in reaLa magnanima idea
Che ben di cambii altor volea giocondo,
Non d'ostie e d'armi insanguinato il mondo
Ben de l'umano officio esperta fostiA' lieti giorni, alma Venezia mia,
Che ne gl'inermi piaPur non bevesti da superbi oltraggio:
So, so quanto ti costi,
Rëina altera e muta,
La corona perduta:
Pur nimbo non minor del prisco raggioTi sia l'invitto del patir coraggio.
Altri Numi, altre vele ed altri portiOggi ansïosa va saggiando Europa:
Poco di Fidia e Scopa
E d'accender sua face a' loro lampi,
Sì d'armate cöorti,
Di tormenti le cale,
E di correr su l'aleInvidïando non arati campi,
S'anco ne' suoi l'arida fame accampi.
Che vale a noi questa gran conca d'oroChe più sovra ogni lido Amor dilesse,
E a noi, tutta promesse,
Diede Natura carezzante in dono,
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