Non si volevano maniere, non si volevano convenzioni. Bisognava fare come si sentiva. Senza partito preso, la lotta del Romanticismo contro il Classicismo era passata dalla letteratura nell'arte, «perchè le lettere e le arti - diceva il Dall'Ongaro - decadono e risorgono insieme, perchè non sono due cose diverse, ma due rami d'un albero stesso.» Gli occhi de' giovani si volgevano in lui, che, indovinando la coscienza del loro volere, li vedeva lagnarsi delle accademie, «che troppo a lungo avevano accarezzato gli alunni diligenti e mediocri a danno degli ingegni più liberi, che sdegnano le pastoie e volevano aprirsi una via non tentata.»
S'era allora costituito un vero giurì in fatto d'arte, senza pregiudizi di genesi e di scuole, il quale nell'apertura di quell'Esposizione sembrava dicesse: «Ebbene, qui non ci sono accademie; qui c'è un pubblico che ci giudicherà con la stessa libertà che reclamate per voi. Venite animosi e fidenti: o vincerete o cadrete sull'orme vostre.»
Questi sentimenti non erano di chi dispera dell'avvenire, al contrario s'improntavano di quella dolcezza e temperanza di linguaggio, rimaste tradizionali in coloro che, dappiù che settant'anni, avevano veduto discendere in Italia i principii di lealtà e di giustizia della Rivoluzione francese, e seguìto forse il Bonaparte dalle pianure di Montenotte alle rive della Trebbia e dell'Isonzo. Essi avevano insegnato a' loro figli di riguardare come sacro il diritto della resistenza contro ogni autorità che vuol rispettati i principii barbogi e le regole assurde.
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