Le rivoluzioni del pensiero non erano cosa nuova in Italia. Dal giornale de' fratelli Verri e del Beccaria al Conciliatore del Confalonieri, del Maroncelli e del Pellico, e da questo alla Giovine Italia e al Crepuscolo di Milano, le dottrine del Grozio, del Puffendorfio, del Montesquieu e degli Enciclopedisti di Francia avevano avuto tra noi i più ampi svolgimenti e le deduzioni più esatte: essi avevano fatto sentire agli Italiani i vizi della loro legislazione. Ora quegli stessi principii, che predicavano la verità innanzi tutto e la legge dell'eguaglianza e della giustizia indeclinabili, passavano nella letteratura e nell'arte. I nomi di indipendenza e di libertà erano ancora nel cuore di tutti. Bisognava finirla con un triste passato, nel quale gli insensati privilegi del Cesarismo moltiplicavano i partigiani dell'antichità ad ogni costo. Dunque, macchina avanti! ogni transazione era viltà; viltà baciar le catene, se anche ricoperte di rose. Voi vedete che il linguaggio delle convinzioni e de' sentimenti, passando dalla politica all'arte, non aveva cambiato di molto. Non si volevano accettare le condizioni di pronti ed immediati favori, che condannavano ad una schiavitù volontaria. E già si sa che la prima libertà deve cominciar da noi stessi. Così, come da oltre cinquant'anni erasi fatto con la politica, si volevano cospirazioni non meno vaste nel dominio dell'arte. Nè questo sentimento, prevalente ne' giovani artisti del passato ventennio, parrà esagerato, sol che si consideri che l'Italia d'allora era tutta piena de' figli di coloro che, non molti anni prima, erano stati esuli e perseguitati.
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