Non avevamo, è vero, ancora, nè Venezia, nè Roma; ma che! Roma, il genio audace del conte di Cavour già ce l'aveva promessa; in quanto a Venezia, il buon Lamarmora si riprometteva di dir due paroline all'orecchio di Francesco Giuseppe: se poi fosse mancata la risposta, ci tenevamo noi in pronto per un altro linguaggio. Ma questo sopratutto era il prodigio de' prodigi: che, eccetto l'Austria e il Papa, noi eravamo nelle grazie di tutto il mondo; ci consideravan tutti, e noi primi, nient'altro che i futuri pacieri d'Europa. Che si dimandava noi alla fine se non di vivere, d'istruirci, di volerci bene, di lavorare? Eravamo poveri, ma ci stimavamo ricchi a cagione di questa nostra madre terra benedetta, gran dispensiera di biade, alma parens frugum, come a scuola avevamo imparato a crederlo, leggendo i poeti; e chi ci avesse chiesto allora quale sarebbe stato il nostro dimane, noi gli si sarebbe risposto a un dipresso come il buon padre Enea a re Latino:
Questi popoli invitti aggian tra loroGoverno e leggi eguali e pace eterna:
pace, ben inteso, dopo tornate Venezia e Roma a noi; ma il ritorno era articolo di fede. Dopo questo, che ci avrebbe potuto tenere in sull'armi? Come non saremmo stati un modello di popolo, quieto, sensato, operoso, speranzoso anche - perchè alla speranza non si rinuncia mai - di arrotondarci pacificamente un dì o l'altro cogli ultimi lembi di casa nostra, ma non impaziente, non irruente, e sopratutto non in uggia ad alcuno? Con questa fede nel cuore, era naturale che l'aspetto di nostra casa lo divisassimo secondo scienza e ragione; guardando a quello che meglio fosse per conferire al governo de' nostri interessi, senza un pensiero al mondo per la sicurezza della compagine nazionale.
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