delle cose, a qualche familiarità co' tempi, con le stirpi, co' costumi e, fino a un certo punto, con le idee medesime, che hanno più o meno governato il nostro basso mondo. È questo un ufficio, di cui gli odierni pittori non si mostrano, per verità, abbastanza compresi, massime i nostri, che strafanno nel tecnicismo, come lo chiamano, e si dan sì poca cura di cimentarsi nell'altro tentativo, dal quale non sono punto alieni gli artisti stranieri.
Parrebbe a chi non conosce tutta la produzione artistica del nostro, che egli siasi quasi esclusivamente abbandonato ad un genere di predilezione qual è quello de' pittori così detti orientalisti. Non si potrebbe negare che la maggior parte de' dipinti presentati alle diverse mostre di belle arti, dalla Esposizione di Vienna del 1873 a quella universale di Parigi del 1885, non sieno di soggetto orientale. Basterebbe leggere, per convincersi di questo suo gusto, le descrizioni incantevoli, che egli fa de' quadri dell'Ussi, del Biseo e del Pasini in quel suo libro incomparabile dell'Arte a Parigi. D'accordo: ma non sono meno incantevoli le descrizioni, che egli fa delle tele del Fortuny, del De Nittis e di tanti altri, cui, per servirmi di una sua espressione, «basta guardare per dipingere, gustare il colore per rapirlo sulla tela, vivere per vincere.» Si direbbe che nelle sue convinzioni di artista indipendente e di scrittore onesto e sincero sia come incarnata la persuasione stessa del Gautier, allorchè diceva che «c'è nella vita generale, dove ciascuno più o meno si mescola, un aspetto agitato e palpitante, a cui l'arte ha diritto di dar forma, da cui può cavare opere magnifiche: e c'è una bellezza assoluta e pura, che è di tutti i tempi, di tutti i paesi, di tutti i culti, e raccoglie nella comunanza dell'ammirazione il passato, il presente e l'avvenire.
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