Era Agostino Ruffini, uno dei tre che mi furono più che amici, fratelli, morto anni sono, lasciando perenne ricordo di sè, non solamente fra gli Italiani, ma tra gli Scozzesi che lo conobbero esule e ne ammirarono il core, l'ingegno severo e la pura coscienza.
Eravamo davanti alle carceri di Sant'Andrea. Scese da quelle un imbacuccato che fecero salire nella vettura ov'io era e vi salirono pure due carabinieri armati di fucile; e partimmo. Nel prigioniero riconobbi poco dopo Passano. Uno dei due carabinieri era l'ignoto del Lione Rosso.
Fummo condotti a Savona (Riviera Occidentale) in Fortezza e tosto disgiunti. Giungevamo inaspettati, e la mia celletta non era pronta. In un andito semibujo dove mi posero, ebbi la visita del governatore, un De Mari, settuagenario, il quale motteggiandomi stolidamente sulle notti perdute in convegni colpevoli e sulla tranquillità salutare ch'io troverei in Fortezza - poi rispondendomi, sul mio chiedere un sigaro, ch'egli avrebbe scritto a S. E. il Governatore di Genova per vedere se poteva concedersi - mi fece piangere, quand'ei fu partito, le prime lagrime dall'imprigionamento in poi.
Erano lagrime d'ira nel sentirmi così compiutamente sotto il dominio d'uomini ch'io sprezzava.
Fui dopo un'ora debitamente confinato nella mia celletta. Era sull'alto della Fortezza: rivolta al mare e mi fu conforto. Cielo e Mare - due simboli dell'infinito e, coll'Alpi, le più sublimi cose che la natura ci mostri - mi stavano innanzi quand'io cacciava il guardo attraverso l'inferriate del finestrino.
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Scritti
Politica ed Economia
di Giuseppe Mazzini
Editore Sonzogno Milano pagine 1484 |
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