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      Il vero è che mancava a tutti in quel periodo di concitamento europeo l'intuizione dell'avvenire. Il moto era, più che d'altro, di libertà. Pochi intendevano che libertà vera e durevole non può conquistarsi all'Europa se non da popoli compatti, forti, equilibrati di potenza e non ridotti dal terrore d'una invasione a mendicare con turpi concessioni un'alleanza proteggitrice o sviati da speranze d'ajuti per lo scioglimento d'una od altra questione territoriale a imparentare la libertà propria coll'altrui dispotismo: pochissimi intendevano che l'invocata associazione dei popoli pel progresso ordinato e pacifico dell'Umanità tutta quanta esigeva prima condizione che i popoli fossero. E popoli non sono dove pel congiungimento forzato di razze o famiglie diverse manca l'unità della fede e dell'intento morale che soli costituiscono le nazioni. Il riparto d'Europa, come i Trattati del 1815 l'avevano sancito, frapponeva, colla eccessiva potenza degli uni e la debolezza degli altri, colla necessità d'appoggiarsi a ogni patto su qualunque grande Potenza s'offrisse creata ai piccoli Popoli e col germe delle divisioni interne lasciato vivo in seno a quasi ciascuna Nazione, un ostacolo insormontabile a ogni sviluppo normale e securo di libertà. Rifare la Carta d'Europa e riordinare i popoli a seconda della missione speciale assegnata a ognun d'essi dalle condizioni geografiche, etnografiche, storiche, era dunque il primo passo essenziale per tutti. A me la questione delle Nazionalità pareva chiamata a dare il suo nome al secolo e restituire all'Europa una potenza d'iniziativa pel bene che non esisteva più da quando Napoleone aveva, cadendo, conchiuso un'epoca intera.


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Scritti
Politica ed Economia
di Giuseppe Mazzini
Editore Sonzogno Milano
pagine 1484

   





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