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      A Giuseppe Sirtori fondatore nel marzo del 1848 in Milano d'una società democratica e che, partendo per Venezia, mi scrisse ch'io disertava, non m'occorre rispondere: egli è oggi generale di re e credente nella onnipotenza del regio statuto; io sono tuttavia esule e repubblicano. Ma agli altri, fratelli miei di credenza, dirò ch'io ho ripensato sovente a quel periodo della mia vita con profonda tristezza, ma senz'ombra di rimorso. Noi eravamo fatti, quand'io giunsi in Italia, impercettibile minoranza. Il popolo non era - nè sarà mai in Italia monarchico; ma era ciò che oggi chiamano opportunista: vedeva una forza ordinata, un esercito d'italiani presto a combattere contro l'abborrito straniero e, a quanto gli predicavano uomini tenuti fino a quell'ora da esso in conto di apostoli della libertà, unica sua salute: quell'esercito era capitanato da un re; le acclamazioni salutavano quindi liberatori, esercito e re. Sul compirsi della quinta giornata, quando il popolo, ebbro di vittoria, era solo sull'arena, la parola repubblica avrebbe potuto proferirsi: nell'aprile avrebbe suscitato, e senza pro, la pessima fra tutte guerre, la guerra civile. D'altra parte, perchè parlare a ogni tratto di sovranità popolare, di riverenza alla volontà del paese, e tenerle in niun conto non sì tosto si pronunziassero in modo diverso dal desiderio? Non toccava a noi repubblicani più che ad altri educare gli animi, salva la missione di modificare le idee coll'apostolato, al dovere di non violarle colla forza?


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Scritti
Politica ed Economia
di Giuseppe Mazzini
Editore Sonzogno Milano
pagine 1484

   





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