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      E gli avversi ridono delle proteste additando, col rancore di chi non perdona, il passato, e il popolo attinge in quel machiavellismo d'evoluzioni un insegnamento d'immoralità o un senso di sfiducia egualmente dannosi. Quei che verranno dopo noi li diranno apostati; io li compiango deboli e malati della malattia d'un secolo scettico e senza ideale.
      I pochi rimasti, nel 1848, fedeli all'ideale repubblicano seppero rispettare la volontà, suprema s'anche errata, del popolo e serbarsi nondimeno incontaminati. E v'insisto perchè, mentre taluni ci accusano d'avere deviato in quel periodo dalla fede, i più persistono, ingannati dalle calunnie d'allora, a credere che da noi escissero per avventatezza repubblicana, semi d'anarchia e di ruina nel conflitto contro lo straniero. Donde escissero quei semi è accertato negli scritti del volume anteriore, nella memoria di Carlo Cattaneo Sull'insurrezione di Milano e nell'Archivio triennale delle cose d'Italia. A me, in questo lavoro che compendia la tradizione repubblicana italiana negli ultimi trentaquattro anni, importa provare come il nostro linguaggio rimanesse invariabilmente conforme al programma di condotta adottato; tanto che gli Italiani sappiano potere la parte nostra ingannarsi ma non ingannare.
      Quel programma di condotta - unità nazionale anzi tutto; guerra concorde contro lo straniero: sovranità del paese da interrogarsi al finir della guerra - era già indicato sin dal febbrajo e prima dell'insurrezione lombarda in una lettera ch'io indirizzai ai Siciliani e che riproduco:


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Scritti
Politica ed Economia
di Giuseppe Mazzini
Editore Sonzogno Milano
pagine 1484

   





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