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      Nè vedo perchè, presso all'escirne, io debba lasciarla, per molti errori che gli avversi a noi v'accumularono intorno, fraintesa.
     
      Fu scritto che noi, vincitori un istante, proclamammo la repubblica romana, non l'italiana. L'accusa è stolta. Una insurrezione, dichiarando illegale quanto esiste d'intorno a sè, può scrivere sulla propria bandiera ogni più audace formola, purchè suggerita dalla coscienza del Vero: un'Assemblea escita legalmente e pacificamente dal voto d'una frazione menoma del paese, nol può. Il mandato avuto è supremo per essa. Proclamare da Roma - di fronte al Piemonte costituzionale e armato - di fronte alle condizioni generali - la repubblica per tutta l'Italia, sarebbe, del resto, stato più ch'altro, ridicolo. La repubblica non poteva conquistare l'Italia a sè se non emancipandola dallo straniero, facendola. E per farla, bisognava creare una forza.
      Pochi giorni bastarono a convincermi che non solamente quella forza non esisteva, ma che nessuno pensava a ordinarla. Gli istinti buoni abbondavano: mancava un concetto. Da circa 16,000 uomini formavano l'esercito dello Stato; ma erano senza coesione, senza uniformità di disciplina, d'assisa e di soldo; lo stato maggiore era nullo; il materiale di guerra pochissimo. Le forze disponibili erano disseminate in gran parte lungo la frontiera napoletana, unico punto da dove quei che reggevano temevano offese e che quel metodo radicalmente errato di cordone militare, debole per ogni dove, non avrebbe potuto difendere.
      Io non temeva offese da Napoli: un tentativo da quel lato, creando in noi un diritto di reazione, era, più che da temersi, da desiderarsi.


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Scritti
Politica ed Economia
di Giuseppe Mazzini
Editore Sonzogno Milano
pagine 1484

   





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