M'affannai inutilmente a dimostrare a quanti vennero a segreto convegno con me, che il vero unico pericoloso nemico della Repubblica era il Presidente, e che importava anzi tutto togliergli forza di compier disegni, evidenti fin d'allora per me. La borghesia, impaurita dei pazzi sistemi che assalivano la proprietą, tremava d'un socialismo inverificabile e minaccioso soltanto a parole. I repubblicani avventati, o come li dicevano rossi, non vedevano pericoli alla repubblica fuorchč dai bianchi, dai monarchici dell'Assemblea, capaci di sviare e profanare l'Istituzione, incapaci, per difetto d'unitą di consigli e d'audacia, d'abolirla. Tutti sprezzavano, errore dei pił fatali, il nemico e mi dicevano, quand'io vaticinava il colpo di Stato, che se mai tentasse, il Presidente sarebbe quetamente condotto a Charenton, ospizio degli impazziti. Lasciai Parigi col presentimento della catastrofe.
Ma l'Italia? Era essa condannata a seguire, quasi satellite, i fati di Francia? Non poteva un popolo di ventisei milioni, ridesto a coscienza di libera vita dalle giornate di Milano e dalle eroiche difese di Venezia e Roma, raccogliere l'iniziativa tradita altrove? Padrone del proprio suolo e del proprio avvenire nel 1848, quel popolo non era caduto se non perchč aveva ceduto la direzione delle proprie forze e del moto a mani d'inetti e di tristi, a principi e cortigiani. Bisognava insegnargli che non esistono capi per diritto di nascita o di ricchezza: che soli capi legittimi d'una rivoluzione sono gli uomini che hanno pił combattuto per essa: che un popolo non deve mai rinunziare al proprio diritto d'iniziativa, nč confidar ciecamente, nč allontanarsi dall'arena, nč dire a sč stesso: altri farą in vece mia.
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Scritti
Politica ed Economia
di Giuseppe Mazzini
Editore Sonzogno Milano pagine 1484 |
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