Luciano Manara di monarchico si tramutava in repubblicano, e mi chiamava fratello; uomini imbevuti fino allora delle calunnie che ci chiamavano alleati dell'Austria, dopo un giorno trascorso in Roma, si ricredevano e venivano, accolti con amore, a dichiararcelo lietamente. Da poche vanità incorreggibili in fuori, vivevamo tutti nella patria e nell'avvenire, non nei proprî meschini rancori, nelle povere ambizioncelle di un'ora, o nei gretti sistemi architettati nel gabinetto. Era vita collettiva d'un Popolo trasformato dal subito apparirgli del vero tradotto in fatti, e d'uomini scelti liberamente a capi, che avevano fiducia in quel Popolo.
C'intendemmo rapidamente con Pisacane, e mi occupai di metterlo in luogo dov'ei potesse rivelare le potenti facoltà che gli fremevano dentro, e giovare alla causa d'Italia.
Gli uomini che circostanze straordinarie e necessità imprevedute avevano chiamato al sommo delle cose, avevano potuto far poco per un avvenire imminente: forse la coscienza d'un diritto moralmente innegabile e la purezza delle intenzioni li allettavano a sperare che non verrebbero assaliti mai. Il dicastero di guerra era singolarmente negletto: non ordini, non armi, non allestimento di un esercito nazionale. Io, Pisacane ed alcuni altri sentivamo il turbine che si addensava tacitamente da lungi. Sapevamo che la bandiera repubblicana non poteva sventolare dal Campidoglio senza diventare più o meno rapidamente bandiera d'Italia: come potevano gli eterni nemici della libertà delle Nazioni lasciarla in pace?
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Scritti
Politica ed Economia
di Giuseppe Mazzini
Editore Sonzogno Milano pagine 1484 |
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