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      Credo dunque l'abolizione della pena di morte dovere assoluto di ogni popolo libero. E perchè io credo in questo dovere, quando in Roma la Commissione militare m'affacciò, per ottenerne conferma, una sentenza di morte contro un milite dichiarato reo di ladroneccio domestico, respinsi il foglio e salvai la vita a quel misero. A voi, ministri di monarchia, che attingete ai legislatori dei tempi dispotico-feudali, o a De Maistre, teoriche crudeli di espiazione o di vendetta sociale, firmare, fra un trionfo parlamentare e la cena, una condanna nel capo, pare atto normale governativo; a me, repubblicano, pareva ch'io non avrei mai più riposato sonni tranquilli, se avessi, mentre i mezzi di difesa sociale abbondavano, rapito per sempre ad una famiglia ogni speranza di gioja, a un mio simile la possibilità di ravvedersi quaggiù.
      E quello ch'io credo della società, lo credo dell'individuo; tanto più quanto più mancano all'intelletto solitario d'un uomo gli elementi che la società possiede abbondanti per accertare i gradi di colpa di chi è segno al giudizio, e l'efficacia del colpo che vuol vibrarsi. I due primi, che nel 1848 annunziarono al popolo di Milano che il patto di dedizione era firmato, che Carlo Alberto, mentre giurava di voler sotterrar sè e i suoi figli sotto le rovine della città, apprestava celatamente la fuga, furono spenti da chi li giudicava agenti prezzolati dell'Austria, ed erano patrioti ed avevano parlato il vero. I traviati che nel 1849, instigati dall'ambizione delusa di un tristo, uccidevano in Ancona gli uomini noti per appartenere alla parte dispotica, credevano salvar la repubblica, e la minavano coll'anarchia, la deturpavano davanti all'Europa, e schiudevano la via alle infinite calunnie che oggi trovano, o signore, un'ultima eco sulle vostre labbra.


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Scritti
Politica ed Economia
di Giuseppe Mazzini
Editore Sonzogno Milano
pagine 1484

   





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