Tra gl'indizi, emergenti dalla banda dei Muratori, d'un miglioramento nell'opinione circa i modi da tenersi nella guerra d'insurrezione, le risse continue fra popolani e pontificii nelle città di Romagna, e i romori insistenti di moto imminente nell'Italia meridionale, essi, scesi a contatto con taluni fra gl'influenti, alle proposte d'azione, alcune importanti davvero e facilmente verificabili con pochi mezzi, ebbero risposta funesta di promesse per un tempo vicino, poi di dilazioni e illusioni senza fine fondate su piani vasti e ineseguibili: i pochi, meschinissimi aiuti in danaro negati. Cercavano l'entusiasmo che, raccolti una volta gli elementi a fare, è il più alto calcolo delle insurrezioni, e trovavano diplomazia: cercavano la lava ardente d'anime vulcanizzate e trovavano rigagnoletti d'acque tiepide volgenti a palude: il Fiat onnipotente di fede e di volontà, e udivano vocine d'eunuchi sussurranti computi d'aritmetica e di paura. Cominciava per essi quella trista esperienza che travolge tante nobili anime allo scetticismo, e che essi troncarono in un subito col martirio.
Di queste delusioni, sia per altezza d'animo, sia perch'ei temesse di ferire uomini che potevano essermi amici, Attilio tacque sempre con me. Ma in una lettera scritta, dopo la fuga, il 28 marzo 1844, Emilio, più giovane d'anni, e di natura, non dirò più candida, ma più aperta agli impulsi, si sfogava dicendomi: "Nell'autunno del 1843, la sollevazione dell'Italia centrale minacciava di farsi nazionale dove fosse stata soccorsa, e noi domandavamo un aiuto di 10.000 franchi, e in ricambio avremmo . . . . . . . . . . . . . . . - Non so di chi sia stata la colpa, ma noi non fummo soccorsi.
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