Il 21 maggio, Attilio riscriveva sconfortatissimo: "Al 10 del corrente io vi scriveva credendo di presto dover partire per l'Italia; ma la mia supposizione riescì fallace; mi conforta però almeno la riflessione che di questo risultato la mia volontà è affatto innocente. Con modica spesa noi avevamo noleggiato una barca: un nativo della provincia dove intendevamo sbarcare ci avrebbe servito di guida tanto più sicura ch'egli guerreggiò lungo tempo colà contro la gendarmeria: saremmo scesi in vicinanza d'un bosco che continua sino alle montagne dove stanno gl'insorti. Avremmo potuto sommare a più di trenta; ma non avevamo scelto che una ventina incirca di risoluti e bene armati; il numero era sufficiente per respingere qualche picchetto che forse avremmo incontrato per via, e conveniente per poterci con facilità muovere, nasconderci, e sussistere. A quest'ora, vivo o morto, sarei in Italia. Tutte queste disposizioni vennero rese nulle dalle lettere di Nicola. Io gli aveva domandato i tremila franchi pei quali m'avevate un tempo accordato autorizzazione; ma egli ricusò spedirli e insinuò anzi agli amici di non secondarci in questa impresa ch'egli chiama pazza e dannosa. Questo suo giudizio non m'avrebbe smosso dal mio progetto, perchè dieci valevano come venti e di dieci io avrei sempre potuto disporre: gl'insorti non domandano già uomini, ma rappresentanza attiva della connivenza degli altri Italiani al loro movimento. La mancanza bensì di danaro ci ha messi nell'assoluta impossibilità d'operare, perchè noi non potevamo ragionevolmente sbarcare se non muniti di qualche somma tanto per poter sussistere senza violenze, quanto per ricompensare gli emissari e le guide e provvedere a tutti siffatti bisogni di guerra.
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