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      La faccia decaduta; i labri, che soleva avere molto coloriti, quello di sotto in particolare, con certa soavità come ridente, si fecero lividi. Pareva aver mutata effigie. Gl'occhi incavati, senza la solita vivacità. Non si poteva riscaldare. Una inappetenzia cosí grande, che non era possibile trovar cibo ch'in una sol volta non gli venisse a rincrescimento, maravigliandosi esso medesimo di non potersi piú comandare. E se bene in quella età aveva tutti i suoi denti, cominciò masticare con difficoltà, contraendo essi ancora la debolezza. Cominciò ad incurvarsi e farsi pesante, con fatica montare e smontare in gondola, con maggiore le scale. I sogni, nel poco che dormiva, non piú con le solite incongruità e, per cosí dire, croteschi, ma distinti, naturali, specolativi e regolatamente discorsivi. Il che egli, che tutto osservava, non solo osservò, ma lo conferí co' suoi, chiamandolo un levarsi pian piano dell'anima dal vincolo e commercio del corpo. Il che non trovo da altri osservato, et avendolo detto un sí grand'uomo, eccitarà forse alcuno a farci riflessione.
      Non era piú cosa che gli dasse trattenimento, né anco il sentir raccontare i successi degl'affari del mondo, il qual gusto aveva dalla sua puerizia continuato sino a questo tempo. Un solo gusto pareva essergli restato nella vigilia, dopo le meditazioni divine, il rivolgere per la mente figure matematiche et astronomiche, e diceva ridendo: "Quanti mondi e quante reti ho fabricato nel cervello!" Aveva tutti gl'indizii di presta licenza dell'anima dall'invecchiato corpo, a cui andava mancando la sanità, l'infatticabilitá però dell'animo supplendo a tutto, sí che non lasciasse ponto de' soliti carichi, rispondendo all'essortazioni degl'amici et auttorità de' patroni, quanto al rallentare le sue fatiche, che suo officio era servire e non vivere, e sempre ognuno muore nel suo mestiere.


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Vita del padre Paolo
di Fulgenzio Micanzio
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