È essenziale alla dignità della donna ch'ella possa guadagnare s'ella non ha una proprietà indipendente, quand'anche non dovesse usarne mai. Ma se il matrimonio fosse un contratto equo, non implicante l'obbligo dell'obbedienza; se l'unione cessasse d'essere forzata e d'opprimere quelli pei quali essa non è che un male; se una separazione equa (del divorzio non parlo) potesse essere ottenuta da una donna che ne avesse realmente il diritto, e se questa donna potesse allora trovare ad impiegarsi così decorosamente quanto l'uomo, non sarebbe allora necessario per la sua guarentigia che durante il matrimonio ella potesse usare di questi mezzi. Come un uomo sceglie una professione, così è da presumersi che una donna maritandosi sceglie la direzione d'una casa e l'educazione d'una famiglia, come scopo principale del suo lavoro per tutti quegli anni di sua vita che occorrono all'esecuzione di questo compito, e ch'ella rinuncia non già a tutte le altre occupazioni, ma a tutte quelle che sono incompatibili colle esigenze di queste. Ecco la ragione che interdice alla pluralità delle donne maritate l'esercizio abituale e sistematico di una occupazione che le chiama al di fuori, e che non può essere compita nelle loro case. Ma è d'uopo lasciare le regole generali, addattarsi liberamente alle attitudini particolari, e nulla deve impedire alle donne dotate di facoltà eccezionali o speciali d'obbedire alla loro vocazione, nonostante il matrimonio, purchè riparino alle lacune che potrebbero prodursi nel compimento delle loro funzioni ordinarie di padrone di casa.
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