Che cosa gli poteva offrire ancora la vita. Era sazio di tutto: di guadi e di amori... Ma il suo canto, il suo canto divino! Poteva egli privare il mondo di tanta delizia? Come il mondo sarebbe sì triste se il sole si spegnesse, così l'umanità non poteva vivere senza il suo canto. Se egli non avesse cantato si sarebbe otturata la maggior sorgente di vera gioia, di puro giubilo, di lieto entusiasmo. Che cosa sarebbe stato il mondo senza il suo canto?
Voleva cantare e godere.
Ma quel sogno? Non ci volle più pensare. Sbadigliò e chiuse di nuovo gli occhi al sonno.
II.
Si destò quando lo volle Giove suo padre. Accorsero servi ad indossargli la tonaca di porpora, a gettargli sulle spalle il manto imperiale, a cingergli il capo della corona di alloro, che si era guadagnata nella Grecia.
Uscì di stanza. Passò tra una schiera di senatori, i quali si curvavano profondamente; non degnò nessuno di uno sguardo; gli schiavi favoriti gli imbandirono la colazione; mangiò molto, bevè molto, assistì a danze lascive, a giochi pazzi, di gladiatori che si ammazzavano sotto i suoi occhi; gli portarono immensi vasi di cristallo, nei quali morivano le triglie più belle, cangiando i più rari riflessi metallici delle loro squame, ma non trovò piacere. Era uno dei giorni consacrati alla celebrazione dei suoi trionfi in Grecia. Il senato gli aveva decretato tante feste, che un anno non sarebbe bastato a compierle, onde un senatore aveva osato proporre, si lasciasse qualche giorno anche al popolo, per le sue faccende.
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Giove Grecia Grecia
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