È un'intiera città che emigra con lui; un esercito di senatori, di patrizi, che lo accompagna; cantanti, numi, gladiatori, liberti, schiavi suoi compagni di ebbrezza; legioni intere di donne, rotte ad ogni vizio.
Ecco il bel mare; ecco le cittadine, che sorgono quali gemme alla sua sponda; ecco il bel Vesuvio, il più bello tra i monti, il più delizioso; ecco Partenope, che esce luminosa dall'onda, e che egli vuole deliziare del suo canto. La folla gli si fa incontro festosa; inneggia ad Apollo; i sacerdoti conducono pingui tori dalle corna dorate, per immolarle al sacro nume. Egli osserva dalla lettiga d'oro con scherno quella folla, che si prostra ai suoi piedi, che lo adora; è troppo assuefatto all'adorazione delle masse, è troppo avvezzo a quelle feste.
S'aggira ammirato nel grande palazzo, sognando novelle feste, novelle orgie, novelli delitti.
I giorni passano lenti, nella nausea suprema di quelle feste, avido cercando sempre novelle emozioni, macchiandosi di colpe sempre più infami, ma che non lo saziano nè gli procurano la soddisfazione che cerca.
Sempre lo stesso spettacolo: Dorsi che si curvavano avanti a lui; omaggi che non costano lotta, piaceri che non richiedono sacrifizi.
E da Roma giungono notizie di feste date in suo onore e della folla che gli plaude.
Dal terrazzino del suo grande palazzo di Baia egli domina l'infinita distesa del mare, così bello, così tranquillo, e sogna di solcarlo un'altra volta, per andare a deliziare col suo canto altri mondi: l'Egitto, la costa africana, Cartagine; per conquistare quelle terre colla pastosità della sua voce.
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