«Quasi che io v’intendo» disse Corinna.
«Io non mi voglio ascondere con voi - seguì Cornelia - perché io sono quell’istessa, che ha avuto così trista ventura, ch’io conosco chiaramente, che molte sono le cose che li vanno a riverscio per sua cagione e gli ricordo di continuo per bene, che abbi governo e che risparmi la robba e par che sempre egli se l’abbi a male, e non mi vuole ascoltare. E così in modi infiniti siamo noi tormentate da questi carnefici crudeli delle nostre vite e viscere, da questi nemici coperti, che impossibile sarebbe a contarne la millesima parte».
«Basta ben - disse Lucrezia - che nel fine ogni lor tristo successo avvien loro per colpa nostra, secondo che essi dicono, disprezzando ogni nostra ragione ed avvertimento, con dir che siamo ritrose e capricciose ed altre opposizioni che ci danno. Ed io oso affermare, che se gli uomini fussero buoni, non vi sarebbe alcuna donna cattiva; che se ve n’è alcuna, è per cagion del marito, che non sa governarla; e quello che ella ha in sé di cattivo, non è suo proprio, ma perché l’è avvenuto di partecipar troppo della natura del padre, al che il savio e buon marito, se tal si trovasse, dovrebbe provedere sopportandola e facendole cangiar quel poco di mala disposizione in buona con buone parole e miglior fatti. Che se si domano ed addomesticano gli animali irragionevoli, accarrezzandoli e dandoli ciò che fa loro di bisogno, quanto più facilmente si convertirebbe una semplice giovenetta, che avesse ricevuto nella sua concezione qualche ritrosità del padre?
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Corinna Cornelia Lucrezia
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