E tanta era la sua buona sorte, che ’l padre Apollo tutto lieto d’un tal figlio, a poco a poco si era scordato il dolor, che la morte di Fetonte gli aveva prima causato nel cuore.
Ma quivi arrivando un giorno la sconsolata Climene e ben ricevuta da Alciteo, invidendo alla sua tanta felicità e considerando la sua miseria nel fulminato figliuolo con l’allegrezza del Sole, che con la buona fortuna de Alciteo s’avea già scordato del precedente infortunio, o quanto si dolse, o quanto si ramaricò tra se stessa, e tanto potè in lei questo cordoglio e l’invidia e la gelosia che ne prese, che deliberò tra sé medesima non lasciar via che, da estinguer ed esterminar Alciteo in dispregio di Apollo, venuta in mente opportuna le fusse. E percioché era ottima maestra di veneni, rispetto che dal già caro Apollo assai della proprietà dell’erbi avea costei nella memoria raccolta, trattò con un scelerato servo che, per gran cupidigia di promesso guadagno, acconsentì nel tradimento del suo signore di levar con veneno la odiosa vita all’innocente giovene. Così tolto ella il carico di compir il beveraggio, dato ordine del modo e disposto il termine alla sua tornata, pigliò licenza e partisi.
Fra tanto, l’innamorato Lioncorno avea tant’oltre impetrato dalla sua signora, che ella vinta dal grande amore, sotto titolo però di sposa, s’era contentata d’introdurlo nella sua camera; e posto tra essi l’ordine a una certa ora che deputarono, si nascose Lioncorno in un camerino, che vicino alla stanza di Biancarisa era, quando nel punto istesso e nel medesmo loco, essendo arrivata la perfida Climene con la mortifera bevanda si ravolse a parlamento col fallace servo, senza avedersi del giovene che, stando nascono, udì ed intese tutto e datogli il vaso, che ad Alciteo con destra maniera lo porgesse, lo informò ed inanimò e con larghe speranze, a commettere il crudele effetto.
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