E partitosi l’un dall’altro, rimase il giovene Lioncorno così smarito e pieno di confusione, che parevagli di sognare; e benché da un lato l’ardentissimo desiderio di trovarsi con l’amata giovane l’accendesse, tuttavia considerando l’importanza del caso, ogni poco che tardato avesse, prevalse la ragion l’appetito e, più amando la vita del caro amico che ’l piacer proprio, immediate corse alla camera d’Alciteo, il qual pur allora, così persuaso dall’ingrato servo che fidel si credeva, apunto si avea levato alla bocca il picciol vaso che gli apparecchiava la morte. Sgridollo Lioncorno che non bevesse e con pronta mano egli stesso gli trasse la tazza dalle dita e gittò a terra e ruppe e sparse il veneno. E scoperto il fatto ed il tradimento ordito, fece Alciteo in quell’istante prender lo scelerato venefico, il quale smarito né seppe né potè fuggire, ma posto a tortura confessò il tutto e fu condennato per giustizia.
La sventurata Climene veduto il negozio non pur scoperto, ma impedito affatto, el servo castigato ed ella stessa posta in pericolo di provar la giustissima ira d’Alciteo, si pose piangendo a fuggir per le vicine selve ed esclamando con calde lagrime all’ascoltante Venere così rivolta mandò li scelerati preghi: “Deh graziosa Dea, tu sai quanto io ti sono stata sempre fedel seguace e quanto io abbia venerato i tuoi santi fuochi; ma ecco l’ingrato Apollo mentre io l’amo fedelmente, mi tradisce ed inganna, ricevendo in mio cambio novella amante, con cui avendo generato l’orgoglioso Alciteo, si è del misero mio figliuolo Fetonte e di me scordato.
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