Godeano il fin da lor tanto bramato.
Già dall’orto all’occaso Amor lasciavaDel suo invitto valor chiari trofei;
Su l’are il foco pio morto restava,
E la religion de gli altri dei:
La vitima a lui sol si consacrava,
E l’odorato incenso de’ Sabei;
Ed era ancor per dilatar più il regno,
S’alla gelosa dea non venia a sdegno.
Giunon d’invidia e di superbia piena;
Di rabbia, di furor, di gelosia,
Veggendo Amor condotto alla terrena,
E prima alla celeste monarchia,
Tal cordoglio ne sente e sì gran pena,
Ch’ad implacabil sdegno apre la via,
E perché vendicarsi al fin conchiude,
Nella secreta camera si chiude.
Iri seco ha la sua fedele amica,
Con cui si sfoga e seco parla e dice:
Dunque preposta è Venere impudicaA me, che son del cielo imperatrice?
Dunque la stella a me crudel nimica,
Mi vol far sempre vivere infelice?
Dunque per sempre Amor pres’ha partitoDi far, ch’altra si goda il mio marito?
Non per una cagion, per mille deggioVendicarmi di lui, che sì m’offende;
La terra e ’l ciel soggetto essergli veggioObedienza ogni mortal gli rende,
Il nostro culto va di mal in peggio,
La fiamma al nostro altar più non risplende,
Che più voglio aspettar? Ch’un dì s’opponga,
E me di questo mio seggio deponga?
Poi ch’ebbe dato loco al gran lamentoCon lunga ed acerbissima querela,
Per isfogar il suo fiero tormentoIn fosca nebbia il chiaro aspetto cela.
Sempre ad alta vendetta ha ’l cor intento,
Né pur ad Iri il suo pensier rivela,
In terra stende sconsolata e mesta,
Ed Iri in ciel locotenente resta.
Per aspra, incolta e disusata via
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Amor Sabei Amor Venere Amor Iri Iri
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