Con gran dolor la dea va caminando,
E la Superbia incontra, che fuggiaA cui del mondo avea dato Amor bando,
E l’Avarizia era in sua compagnia,
La dea se le venne approssimando,
E dove elle di gir s’avean propostoLor fé dimanda, onde le fu risposto.
Dannate siam disse, in perpetuo essiglio,
L’empia superbia, all’adirata dea,
Dal maladetto e scelerato figlioDella malvaggia e brutta Citerea;
Il qual con certo suo soave artiglioGli animi tira alla sua voglia rea,
E se ’l mondo terrà troppo il suo stileIn breve diverrà povero e vile.
Come che gravi sian nostri doloriChe tenevamo in terra il primo loco
E stavam nelle corti de’ signori,
Anzi nel cuor, più che in ogni altro loco;
Via più c’incresce de’ nostri maggiori;
Ch’ad Amor come veggio a poco, a poco,
Giove obedisce e le sante alme, vinteDa certe sue dolcezze amare e finte.
A questo dir Giunon di rabbia accesaNe gli occhi, e più nel cor sfavilla ed arde
E le risponde: Son d’ogni mia offesaLe vendette maggior, più che son tarde.
Gran tempo ho comportato esser offesa,
Non che le forze mie non sian gagliarde;
Ma mi parea viltà d’usarle seco,
Essendo vil fanciullo, ignudo e cieco.
Ma poi ch’è divenuto sì arroganteChe voi discaccia ed osa offender noi
Per noi tre insieme, ancor che sia bastanteIo sola a far quel che farete voi
Vada all’ingiuria la vendetta inante.
Sieno tutti spuntati i strali suoi.
Il parer della dea fu a tutte caro,
E subito nel mondo ritornaro.
L’assunto a l’avarizia ne fu datoDi condur ad effetto il lor pensiero:
Ella, c’ha ’l tempo commodo appostato,
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Superbia Amor Avarizia Citerea Amor Giunon
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