E mentre così la danza ottiene un posto fra le onorevoli professioni, e la musica le tien dietro come un subordinato ma necessario accompagnamento, e a quest'uopo vengono istituiti per ambedue pubblici e sacri consorzi, la poesia compare nulla più che un accessorio, e quasi, si direbbe, come una cosa indifferente, sia che si manifestasse di per sè sola, o che servisse al saltatore di accompagnamento alla sua danza.
I Romani consideravano come la prima delle canzoni quella che nella verde solitudine delle selve mormoravano le foglie tra loro. Quel che lo «spirito fausto» (faunus da favere) bisbiglia nel bosco, o suona sul flauto dei venti, l'uomo savio (vates) o la savia donna (casmena, carmenta), a cui è dato di ascoltare le sacre canzoni della natura, le traducono poi agli uomini accompagnandole col flauto e vestendole di favella ritmica (casmen, più tardi carmen, da canere), e i nomi di alcuni di questi uomini ispirati dal dio, e prima di tutti quello di un vecchio veggente e cantore, Marcio, si conservarono lungo tempo nella memoria dei posteri. Affini a questi canti vatidici erano i veri mottetti magici, le formole per scacciare le malattie ed altri fastidi e le cattive canzoni, colle quali s'impedisce la pioggia e si fa cadere il fulmine, o si attira la seminagione da un campo sull'altro; però in questi incantesimi entrano, originariamente, insieme colle formole di parole, anche delle mere cadenze onomatopeiche114. Non meno antiche sono le litanie religiose, che vennero tenacemente conservate e trasmesse come erano cantate e ballate dai saltatori e da altri sacerdoti, e delle quali l'unica che è pervenuta sino a noi, probabilmente una ballata dei fratelli arvali, in lode di Marte, che vale la pena di riportare:
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Storia di Roma
1. Dalla preistoria alla cacciata dei re da Roma
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma 1938
pagine 327 |
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Romani Marcio Marte
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